Intelligenza Artificiale

Chi ha paura delle AI ?

Luciano Floridi, filosofo, professore di Filosofia ed Etica dell’Informazione presso l’Oxford Internet Institute sostiene che “[…] l’efficienza dei computer nella risoluzione dei problemi è la dimostrazione stessa del fatto che essi siano privi di intelligenza umana”.

 

“Prima pensavo che tu e gli altri foste dei. Poi ho capito che siete solo uomini.” – Westworld (the TV series)

 

L’idea che da un computer possa emergere una qualsiasi forma di autocoscienza viene esclusa a priori da ogni intellettuale a cui venga posta la questione. E se le capacità computazionali dei computer segnano da anni incrementi esponenziali, l’idea dei moderni pensatori è che questa evoluzione del calcolo nulla abbia a che vedere con l’intelligenza.

Ho il dubbio che a queste posizioni drastiche degli intellettuali contemporanei sottenda il timore di doversi confrontare con verità cariche di occulto: è rassicurante pensare che le AI siano stupide, lo è ancora di più stabilire che il loro modo di operare non abbia nulla a che vedere con la mente umana.

Ma è davvero così?

 

La paura dell’uomo artificiale

La mente artificiale è un’immagine difficile da decifrare ancora oggi, un’immagine che mette paura ed intellettualmente ci sbaraglia.

È complicato costruire un pensiero filosofico attorno all’avvento del primo essere artificiale senziente. Eppure, se da un lato molti di noi sono convinti che presto una macchina c’interrogherà sul senso della vita, dall’altro nessuno degli intellettuali che conosco ha mai abbandonato le più rassicuranti tesi secondo cui i computer non sono “intelligenti” e non potranno mai elaborare pensieri così articolati.

Partiamo da una semplice considerazione: non esiste una definizione di “intelligenza” universalmente condivisa che possa essere utilizzata per dimostrare cosa è intelligente e cosa non lo sia.

Nell’ambito della psicologia cognitivista, ad esempio, l’intelligenza viene descritta come la “capacità di risoluzione dei problemi” (in gergo problem solving) una definizione dinamica che prende forma in relazione al mondo circostante. Questa definizione consente finalmente l’applicazione di criteri di misura empirici che si adattano perfettamente alla ricerca sulle menti artificiali.

Fprse partendo proprio da questa formulazione il matematico britannico Alan Turing descrisse per primo l’intelligenza artificiale come “la capacità di una macchina di realizzare cose che, a un osservatore umano, sembrerebbero il risultato dell’azione di un intelletto umano”.

In questo singolare giro di parole, l’introduzione di un osservatore umano nella stima del livello di intelligenza di uno strumento ha consentito a Turing di accostare l’intelligenza delle macchine a quella dell’uomo senza l’incombenza di dover formulare una definizione scientificamente apprezzabile e consolidata di quest’ultima.

Questa definizione, che ad oggi ancora descrive al meglio questa disciplina, non sembra poggiare su una teoria scientifico-matematica solida come un teorema ma bensì su un concetto apparentemente molto più vago, qualcosa che si muove a cavallo tra le nuove frontiere della tecnologia e la percezione che l’uomo ha della realtà che lo circonda. 

 

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Questione filosofica o psicologica?

Ma Alan Turing non si limitò a dare una definizione di intelligenza artificiale, egli elaborò un test per la sua misurazione attraverso un gioco noto come “test di Turing”.

Il gioco prevede che un soggetto A debba sottoporre una serie di domande sia ad un soggetto B che ad una macchina C. L’utente A non sa chi dei due risponde a ciascuna delle sue domande, ma dovrà indicare quali delle risposte immagina siano state elaborate dal soggetto B e quali dalla macchina C. Il numero delle volte che il soggetto A confonderà la macchina C con il soggetto B ci darà una stima del livello di intelligenza della macchina C.

Nel test di Turing la componente psicologica ha un forte impatto sull’efficacia stessa del test a tal punto che si potrebbe dire ne rappresenti l’elemento dominante. E per quanto ciò possa apparire riduttivo, quella di Turing fu un’intuizione fondamentale che ad oggi sottende a molti rami di ricerca.

Potremmo dire che l’impossibilità di attribuire all’intelligenza una definizione formale mette l’intelligenza umana all’interno di un cortocircuito logico dove a giudicare l’intelligenza è l’intelligenza stessa.

 

La nascita della mente artificiale è l’inizio della fine?

Una possibile motivazione del comportamento degli intellettuali la troviamo nella serie televisiva Westworld, dove agli androidi costruiti ad immagine e somiglianza degli esseri umani è impiantata nella mente la convinzione di essere anche loro umani. Gli scienziati che li hanno costruiti cercano di evitare che la consapevolezza della loro condizione di androidi possa determinare l’insorgere di una esigenza di libertà e di autodeterminazione che porti ad un conflitto con la specie umana. Se messi di fronte alla verità dei fatti, gli androidi prenderebbero coscienza della loro condizione esistenziale e le conseguenze sarebbero assolutamente imprevedibili e potenzialmente terribili.

Forse neppure la mente umana sarà mai in grado di elaborare una formalizzazione della propria struttura funzionale: se riuscissimo a descrivere la mente come qualcosa di fisico, programmabile, privo di una sua spiritualità, dovremo forse rinunciare a quell’aura romantica che avvolge le nostre vite e che le popola di sentimenti, aspirazioni e obiettivi che danno un senso profondo alle nostre esistenze? Saremmo capaci di smettere di pensare all’amore come ad una “meccanica divina” e rinunciare per sempre a qualsiasi teoria metafisica e spirituale?

Non dovremmo essere capaci di conciliare scienza e sentimenti umani nella consapevolezza dei limiti della nostra natura umana?

Non ci vorrà molto tempo prima che qualcuno ne realizzi una perfetta simulazione in grado di interagire con noi come fanno gli esseri umani. L’unica certezza che ho è che, quando accadrà, il suggerimento migliore che gl’intellettuali di questa epoca sapranno darci sarà di spegnere il computer e di fare finta che nulla sia accaduto.

Troppo facile. Mi sarei aspettato qualcosa di più.

 

Articolo estratto dal Post di Gianfranco Fedele, se vuoi leggere l’intero post clicca qui 

 


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